LA VITA DI CICCIO BIUSACCA (Placido Sergi)


 
La vita di Ciccio Busacca è raccontata da PLACIDO SERGI in un articolo in Internet http://www.paternogenius.com/pagine/Placido%20Sergi/pagine/TraTradizione%20e%20personalit%C3%A0%20nei%20cantastorie%2040.htm
Il paternese Ciccio Busacca, vincitore di numerosi concorsi nazionali, protagonista di spettacoli teatrali, additato dagli studiosi e dagli intellettuali come esempio di schietta poesia popolare, è oggi uno dei più famosi cantastorie siciliani.
Basso di statura, ma robusto, scuro di pelle, le guance incavate, i capelli leggermente brizzolati e gli occhi chiari, Busacca ha ancora la semplicità e la cortesia di modi del contadino siciliano, anche se spesso si compiace di ricordare i suoi contatti con il mondo artistico ed intellettuale del settentrione.
Veste senza ricercatezza; sua unica vanità è un basco blu che nasconde l'incipiente calvizie.
La sua casa è nettamente divisa in due; al pianterreno, un grande atrio fa da cucina, soggiorno, sala da pranzo, all'intera famiglia (la moglie e una mezza dozzina di figli); al primo piano c'è l'appartamento di rappresentanza: pavimenti lucidi, mobili nuovi, l'arazzo sopra il divano del salotto buono, le pareti adorne delle locandine che annunciano spettacoli di Busacca nei principali teatri di Milano, di Roma, di Torino. La divisione della casa di Busacca è un po' un simbolo della divisione della sua vita: per metà, Busacca è il popolano fedele alle tradizioni della sua terra, per l'altra metà è l'artista di successo apprezzato dagli intellettuali.
Infatti, Ciccio Busacca ha raggiunto il successo solo dopo aver conosciuto per personale esperienza la dura vita del bracciante siciliano. Nato a Paternò il 15-2-1925, Busacca faceva il bracciante d'inverno, cioè nella stagione in cui si fa il raccolto delle arance, e d'estate lo
« stazzunaru », come diciamo a Paternò, cioè il fornaciaio.
Eppure sin da piccolo Busacca sentiva in sè l'ispirazione poetica; all'età di dieci-dodici anni, per esempio, compose una « storia » su un vigile urbano che aveva seviziato una bambina a Ramacca. Naturalmente questa come altre composizioni andarono in seguito disperse, anche perchè Busacca era completamente analfabeta.
Gli piaceva però ascoltare i vari cantastorie che si fermavano a Paternò, benchè nessuno di essi lo soddisfacesse pienamente.
Ripensando oggi alle sue esperienze giovanili, Busacca afferma che questo avveniva, perchè essere un vero catastorie è estremamente difficile; il cantastorie, secondo lui, deve essere più di un attore, giacché l'attore interpreta un solo personaggio, mentre il cantastorie deve rappresentare la parte anche di venti persone. Oggi Busacca giustamente si vanta di avere raggiunto tale forza interpretativa, giacché nei suoi spettacoli riesce a caratterizzare, con mezzi estremamente sobri, tutti i personaggi di una « storia », che spesso sono numerosissimi.
Busacca entrò propriamente nel mondo dei cantastorie quasi per caso; nel 1951 si trovava a Raddusa per il suo mestiere di fornaciaio. In quel periodo avvenne a Raddusa un classico delitto d'onore: una ragazza uccise l'uomo che l'aveva sedotta. Il nostro futuro cantastorie si informò sul fatto e ne compose una « storia », che intitolò « L'assassinio di Raddusa ». Qualche tempo dopo, Busacca, venuto a Paternò per certi suoi affarucci, incontrò Gaetano Grasso, famoso cantastorie della passata generazione e suo amico di famiglia; gli parlò del fatto successo a Raddusa e gli fece ascoltare la sua « storia ».
Don Gaetano la apprezzò moltissimo, fino al punto di invitare Busacca a cantare assieme a lui. Ma egli dapprima rifiutò, perchè il mestiere di cantastorie gli appariva un po' umiliante. Allora, dice Ciccio, che si vanta di avere « signorilizzato » il mestiere, « i cantastorie non erano quello che sono oggi »; alla fine della sua storia, per esempio, il cantastorie andava in giro con il piattino, come ancora oggi fanno i cantastorie settentrionali.
Eppure, quando don Gaetano gli disse che in certe piazze si guadagnavano anche 5.000 lire al giorno, il nostro Busacca, che riusciva a racimolare solo 1.000 lire al giorno rompendosi le ossa, si decise ad intraprendere la nuova carriera, però eliminando il piattino. La prima piazza, in cui egli si fermò, fu San Cataldo in provincia di Caltanissetta.
Quel giorno, al momento della « rottura » (così si dice in gergo il momento in cui il cantastorie interrompe la « storia » per permettere al compagno di vendere i libretti), invece di usare la solita formula: « Se non comprate la " storia ", almeno regalate qualcosa », Busacca esclamò: « A chi non si trova 100 lire spicciole per comprare la " storia ", la " storia " sarà regalata ». Fu un grande successo; quel giorno, la prima volta che si esibiva, Busacca guadagnò 12.000 lire, come egli ancora oggi ricorda. Paolo Garofalo, il suo compagno di quella prima avventura, ebbe ad esclamare che in vita sua non aveva mai visto tanti soldi tutti in una volta.
Oggi, nessun cantastorie siciliano farebbe il giro con il piattino.
Naturalmente nelle parole di Busacca « storia » sta per libretto con la « storia » a stampa; a quel tempo i cantastorie vendevano solo i libretti che, anche di dodici sedici pagine, costavano sempre 100 lire. In seguito si smerciarono i dischi e, a questo proposito, Busacca afferma esplicitamente che il disco è stato la fine dei cantastorie. Col disco il cantastorie può permettersi di non cantare più sulle piazze, anzi addirittura vi sono stati dei casi di cantastorie, che si sono fatti incidere dischi da cantanti professionisti e poi li hanno smerciati con il proprio nome (e qui Busacca è pronto a citare polemicamente nomi e fatti).
Durante una nostra conversazione, obiettai a questo proposito a Busacca che, se il disco ha fatto decadere un po' il mestiere di cantastorie, però fa guadagnare di più. Egli mi rispose che si guadagna di più, ma anche di meno.
Intendeva dire che si incassa di più, ma le spese sono maggiori; se con la vendita dei libretti c'era l'ottanta per cento di guadagno, con i dischi il guadagno è solo del trenta per cento e anche meno.
Ma sarà bene a questo punto riprendere la narrazione della vita di Busacca.
La prima cosa, di cui egli si accorse nell'esercitare il suo nuovo lavoro, fu che occorreva sapere leggere e scrivere.
Fu così che, all'età di ventisette anni, a prezzo di un notevole sforzo di volontà, acquistò da solo le prime nozioni scolastiche.
Nel 1953, fermatosi per uno spettacolo a Bagheria, Busacca conobbe il poeta Ignazio Buttitta; da quell'incontro nacque una delle più feconde collaborazioni della poesia siciliana.
Quando nel 1955 la mafia uccise il sindacalista Salvatore Carnevale, Buttitta compose il « Lamentu ppi la morti di Turiddu Carnivali », una delle pagine più belle e più celebri della poesia siciliana contemporanea, espressamente perchè Busacca la cantasse. Egli la interpretò per la prima volta a Livorno, in occasione del III Congresso della Cultura Popolare, davanti a Levi, a Visconti, a Zavattini.
Dopo di allora, Buttitta ha scritto molto per Busacca, ad esempio la « storia » di « Filumena Guastafierru », che addita una delle piaghe sociali più terribili di tutto il Sud: la cessione per denaro dei figli a coppie ricche e senza prole per l'adozione.
Frattanto Busacca continuava con successo la sua carriera.
Nel 1956 debuttò felicemente al Piccolo Teatro di Milano, in « Pupi e cantastorie di Sicilia ».
Nel 1957 fu invitato al Primo Congresso Nazionale dei Cantastorie, a Gonzaga; la forza drammatica della « storia » di « Giuvanni Accetta, l'innuccenti vinnicaturi » sbaragliò facilmente la vena tragicomica e canzonettistica dei cantastorie settentrionali, e Busacca fu proclamato
« Trovatore d'Italia », premiato con la « torre d'oro ».
Da allora non si sono più contati gli spettacoli teatrali a cui Busacca ha partecipato e i concorsi di cantastorie che ha vinto.
E' stato anche all'estero: nel 1959, assieme a Buttitta, si recò in Francia per una tournée di 40 giorni, durante la quale si esibì nei teatri (ma, ricorda Busacca, agli spettacoli venivano soprattutto Siciliani e Calabresi immigrati) e alla televisione. Ho ricordato questa tournée di Busacca non soltanto perchè essa segnò una tappa importante nella vita e nella carriera del nostro cantastorie, ma anche perchè in occasione di essa egli scrisse una delle più belle poesie, che mi piace riportare come me la dettò l'autore, essendo, credo, inedita.
LITTRA
Littra ca passi vaddi, munti e mari,
iu ti ni pregu, fammillu 'nfavuri:
a frati e amici mi l'à ssalutari;
a me muggheri portici l'amuri;
a li me figghi non ti li scurdari:
portici di stu ciatu lu caluri
e dicci ca stu patri non po stari,
ca pensa ad iddi e soffri a tutti l'uri.
Si qualcunu t'avissi a-ddumannari:
« L'affari comu vanu, tinti o bboni? ».
dicci sultantu: « Lu 'ntisi cantari
luntanu di la nostra nazioni ».
A patri e matri ci mannu a vvasari
la manu ritta ccu dducazioni,
e dicci su mi volunu mannari
la santa e giusta binidizioni (1).
Alla fine del capitolo si troveranno altre liriche di Busacca. Ora, per completare almeno il quadro delle tournée all'estero del nostro cantastorie, occorre ricordare lo spettacolo a cui il 13 agosto 1969 Busacca partecipò a Lugano, assieme a rappresentanti del folklore francese e nord-americano, durante la « Rassegna Internazionale delle arti e della cultura ».
In quell'occasione Busacca, che è apparso più volte alla televisione italiana, si esibì anche alla televisione svizzera.
Le « storie » di Ciccio Busacca si possono chiaramente classificare in base alla lunghezza delle composizioni e alla complessità della trama. Ad un tipo più complesso, che talvolta, ma non necessariamente, tratta storie di brigantaggio, appartengono le composizioni più famose di Busacca: da « Giuliano, re dei briganti » a « Lu bastardu », da « Giuvanni Accetta, l'innuccenti vinnicaturi » a « Carmelu Ciaramedda, l'omu cchiù sfurtunatu di lu munnu ». Altre « storie », che naturalmente sono anche più brevi, presentano una trama molto più semplice; ad esempio « Virgogna e gilusia », «Amuri, tradimentu e pistulati », le recentissime « storie » di « Rosa Privitera » e « Lu dannu di la barbira ricchizza ».
Le «storie » di questo secondo tipo sono diventate più abbondanti negli anni più recenti, fenomeno questo che è comune a tutti i cantastorie e deriva da un fatto pratico: sono più richieste le « storie » che abbiano una durata di circa sei minuti, che possono cioè essere incise su un comune disco a 45 giri; ma si badi che fin dagli inizi della sua carriera Busacca aveva in repertorio queste « storie » più brevi.
D'altra parte, egli non è mai giunto ad una disgregazione lirica della « storia »; in essa, di qualsiasi dimensione sia, prevale sempre il carattere narrativo (2).
Naturalmente anche Busacca è impegnato nella ricerca di una variazione che spezzi la monotonia del ritmo della « storia », ma ha cercato di ottenere questo effetto inserendo brani lirici piuttosto brevi di metro diverso da quello del resto della « storia », che vengono indicati come « canzuna ». Questi intermezzi lirici si trovano, ad esempio, nella « storia » di « Carmelu Ciaramedda », in « Amuri, morti e sirinata amara », ecc.
In effetti l'ispirazione di Busacca resta sempre fondamentalmente unitaria: tragicità ed attenzione ai problemi sociali stanno costantemente alla base delle sue « storie ».
La « tragedia » in Busacca non è soltanto un mezzo per impressionare il pubblico, ma qualcosa di profondamente radicato nell'animo di questo cantore popolare e che egli riesce ad esprimere con autentica sensibilità.
Busacca per le sue « storie » si ispira alla fantasia e, più raramente, alla cronaca; in particolare egli è assiduo lettore di un settimanale, chiamato appunto « Cronaca » e pubblicato a Roma; egli ha notato però che le « storie » di fantasia hanno maggiore successo, giacché egli riesce ad immettervi una più sentita tragicità. Naturalmente si tratta sempre di fatti possibili; solo in un caso Busacca si è staccato, se si vuole, da « ciò che può accadere », cioè nel contrasto « La morti e lu miliardariu », ma solo perchè in esso risalta una profonda sentenza morale di ispirazione cristiana: i beni di questa terra sono passeggeri e caduchi.
In effetti Busacca ha coscienza che il cantastorie deve essere un educatore del pubblico. Nelle sue « storie » colui che ha commesso del male, anche se i suoi crimini sono una giusta vendetta, viene sempre punito, sia dalla giustizia umana che da quella divina.
A questo proposito voglio ricordare un episodio della vita di Busacca; nel 1962 egli fu trascinato in tribunale, perchè la sua « storia » di
« Salvatore Giuliano », che egli rappresentava potentemente nelle varie piazze d'Italia, fu ritenuta tale « da poter turbare il comune sentimento della morale e da potere provocare il diffondersi dei delitti ». Naturalmente Busacca fu prosciolto da ogni accusa: bastava leggere l'ultima sestina della « storia », per capire la profonda moralità di essa:
Ora Busacca dici a li prisenti
quattru paroli daveru 'mpurtanti.
Vi dici di campari onestamenti
ca non cunveni fari lu briganti;
pirchì u briganti ppi la liggi è persu,
Busacca afferma nta l'urtimu versu.
Se si ripensa al carattere di vendicatore di torti, di giustiziere, di amico dei poveri che Giuliano ha nella « storia », ci si accorge che il significato di questa sestina non è quello volgare del delitto che non rende, ma che essa assume un profondo significato sociale. Essa, e tutte le altre simili conclusioni di « storie » di Busacca, significano che la ribellione individuale contro le ingiustizie è sbagliata, significano che la via della protesta personale è preclusa, che solo attraverso un'accettazione delle strutture sane della società si può giungere alla eliminazione delle ingiustizie di essa; anche per questo verso va morendo la tenebrosa ed affascinante figura del brigante siciliano.
Siamo così scivolati, quasi inavvertitamente, nel campo dei problemi sociali, dei quali Busacca è osservatore attentissimo.
Anche se le esigenze dello spettacolo lo costringono più volte ad accostarsi al gusto popolare (come nel caso della deformazione della figura di Giuliano), pure Busacca sa osservare e, forse quasi incosciamente, denunciare i problemi delle masse popolari siciliane. Naturalmente tali problemi fanno quasi da base su cui si sviluppa il « fattaccio », il delitto, che rende la « storia » accetta al pubblico; ma nelle « storie » di Busacca si possono cogliere significativi accenni al brigantaggio, al mercato nero del dopoguerra (« Peni e duluri di Vincenzu Serra »), all'ostracismo a cui sono costretti i figli della colpa (« Lu bastardu »), all'emigrazione che ha spesso quasi svuotato di uomini interi paesi
(« L'emigranti in Girmania », « Rimorsu e pentimentu d'un banditu »), oltreché naturalmente agli eterni conflitti dell'amore con gli interessi di casta (« L'amuri vinci e la ricchizza perdi », « Amuri, morti e sirinata amara »).
Parecchi studiosi si sono occupati delle opere di Ciccio Busacca. Roberto Leydi gli ha dedicato parecchie pagine della sua sezione sui cantastorie in « La piazza », l'ottimo volume che tratta di tutte quelle forme di spettacolo popolare che hanno o hanno avuto come teatro le piazze (3).
Antonino Buttitta, che si era già occupato di Busacca in un suo primo articolo sui cantastorie (4), nel 1964 gli dedicò per intero un altro articolo (5), pubblicando ventisei « storie » e una « barzilletta » del nostro cantastorie, precedute da una breve introduzione.
Benchè le opere apparse in quest'ultima pubblicazione non siano accompagnate da alcun commento, esse costituiscono probabilmente il più vasto « corpus » di composizioni di un cantastorie che sia mai stato pubblicato.
Ovviamente, io non voglio rifarmi a quelle opere di Busacca che, comunque, sono state oggetto dell'attenzione dei folkloristi, ma commenterò brevemente alcune composizioni che mi sono sembrate particolarmente significative fra quelle che Busacca ha composto negli ultimi anni.
La « storia » intitolata « L'emigranti in Girmania » fu composta nel 1967 e, sia per l'argomento che per la brevità (30 quartine di ottonari), può essere considerata tipica della più recente produzione di Busacca. La vicenda è naturalmente di fantasia (solo tre o quattro opere del nostro cantastorie sono ispirate, a detta di lui stesso, a fatti di cronaca); nel libretto, la « storia » è seguita da una traduzione in italiano.
Essa si apre con il « richiamo » del cantastorie al pubblico (in Busacca, non è quasi mai usato l'altro tipo, più tradizionale, di inizio della
« storia », cioè la « protasi » o invocazione di carattere religioso):
Cari amici, c'è Busacca
misu prontu ppi cantari,
ca li cori vi li spacca
mentri stati ad ascutari.
La quartina successiva è dedicata alla presentazione dei personaggi, procedimento questo che, come ho già detto, è tipico dei cantastorie paternesi; Giovanni Spatafora, perseguitato dalla miseria, emigra in Germania:
Giuvanninu Spatafora,
ccu tri figghi e già spusatu,
abbannuna la so casa,
di la fami assicutatu.
Naturalmente la famiglia resta a casa, e Giovanni, come ogni buon emigrato siciliano, manda a casa i soldi che guadagna con il suo lavoro in miniera. Ma la moglie, consigliata dalla madre, lo tradisce:
Lu tradeva, e sparti ancora
li dinari ca pigghiava
la muggheri 'ncannatrici
all'amanti li muddava.
Essa non solo tradisce il marito, ma maltratta anche le figlie. Ben presto però giunge a Giovanni una lettera anonima che svela tutta la tresca. Il povero Giovanni, sconvolto da questa notizia, parte immediatamente per l'Italia:
A lu vintiquattru Giugnu
Giuvanninu Spatafora
la Girmania abbannuna
senza diri na palora.
L'indicazione del giorno e l'uso del verbo «abbannunari», che implica qualcosa di definitivo, danno alla quartina un tono tragico e solenne, che preannuncia la prevedibile catastrofe.
Giovanni Spatafora, giunto nelle vicinanze del suo paese, aspetta che cali la notte. E' d'estate e tutte le finestre sono aperte; Giovanni penetra in casa senza far rumore e trova i due amanti che dormono. Li sveglia, spara contro di loro quattro colpi e li uccide; ma il rumore dei colpi ha svegliato le tre bambine che dormono.
Il cantastorie esprime il loro terrore e il loro dolore in una bella e commovente quartina:
Fu na scena spavintusa
a vidiri ddi tri figghi
ca chiangevunu 'nginocchiu,
tutti tri facennu schigghi.
Frattanto giungono gridando sul luogo del delitto i suoceri di Giovanni. Anch'essi sono colpevoli, perchè hanno spinto la figlia sulla via del disonore, e, quindi, Giovanni ne fa giustizia sommaria:
A li soggiri Giuvanninu
non ci dissi na parola,
perchì, caricu di nervi,
fa parrari la pistola.
Il rumore dei colpi di pistola ha fatto svegliare i vicini, che aiutano Giovanni a fuggire; ad essi Giovanni raccomanda le figliolette:
Quantu genti nta dda strata,
quantu genti s'affacciaru!
E a lu poviru Giuvanni
a scappari l'aiutaru.
Ma Giuvanni, mischineddu,
cci diceva a lu scappari:
« A sti poviri tri figghi
non li fati piniari ».
Evidentemente ci troviamo di fronte ad una di quelle associazioni spontanee che si formano nei vicoli (« vaneddi ») e nei cortili («curtigghia») dei paesi siciliani. La ristrettezza e la poca igiene delle dimore dei contadini, solitamente costituite da un unico vano, costringono infatti, in pratica, a vivere sulla pubblica via e, quindi, ad avere i vicini di casa per testimoni e giudici di ogni azione della vita quotidiana (6).
Implicitamente il cantastorie ci dice che il vicinato ha già giudicato e condannato l'operato della moglie di Spatafora, ed è quindi pienamente d'accordo sulla pena che le è stata inflitta. Ovviamente, io parlo sempre di una moralità popolare, oggi un po' antiquata, e che, come infatti vedremo, nemmeno Busacca condivide più.
Esteticamente, le due quartine da me riportate sopra sono fra le più belle della «storia »; infatti la ripetizione nei primi due versi, che dà quasi un senso di pianto e di lamento, e l'accenno alle bambine, contribuiscono ad accentuare quell'atmosfera di fatalità e di tristezza che aleggia su tutta la « storia ».
Dopo tre giorni, Giovanni viene trovato annegato; egli si è suicidato. La storia è ormai conclusa; un ultimo sguardo ai protagonisti con particolare commozione quando il cantastorie accenna alle tre piccole vittime innocenti:
Ora Vanni è sutta terra,
quattru 'nfami sunu morti,
ddi tri figghi svinturati
tra lu chiantu e lu scunfortu.
Segue la quartina con « la murali », in cui Busacca inserisce ancora il sigillo del suo nome:
Siddu sbagghia la muggheri
e l'onuri vostru 'ntacca
non macchiativi di sangu,
ascutatulu a Busacca.
Busacca quindi si pronuncia contro il delitto d'onore.
Questa barbara costumanza fu indubbiamente diffusa anche tra le classi colte; oggi, in realtà, il delitto d'onore, tranne qualche caso clamoroso, tende a scomparire anche tra le classi popolari.
D'altra parte, da parecchi secoli i delitti d'onore sono uno degli argomenti preferiti dalla poesia popolare siciliana; basti pensare alla
« Baronessa di Carini ». Nella bellissima composizione cinquecentesca, almeno nel suo nucleo originale, sono narrate appunto le tristi vicende della Baronessa di Carini, che, rea di adulterio con Ludovico Vernagallo, viene punita con la morte dal padre (7).
Ma la « storia » di cui abbiamo parlato è anche caratteristica per il modo con cui Busacca inserisce i problemi sociali nella sua poesia.
Naturalmente il poeta popolare non analizza il fenomeno dell'emigrazione, in Sicilia vecchio ormai di un secolo, nelle sue cause, che risiedono nell'indifferenza dei governi e nella carenza di provvedimenti sociali.
Busacca vede soltanto le conseguenze di questo abbandono secolare, di questo sottosviluppo a cui la Sicilia è stata condannata: è la fame
(« abbannuna la so casa / di la fami assicutatu ») che spinge i Siciliani verso paesi lontani, per guadagnare onestamente quel poco che basta per vivere, e che in patria è negato loro dagli ordinamenti sociali retrivi ed ingiusti.
Ma se a Busacca sfuggono le cause remote dell'emigrazione, non gli sfuggono le terribili conseguenze di essa: rottura dell'ambiente sociale e familiare, problemi umani ed affettivi facilmente immaginabili, isolamento all'interno del nuovo paese con conseguente tendenza a sentire drammaticamente tutto ciò che accade nell'ambiente che si è lasciato.
Naturalmente, come ho già detto, il problema sociale è come la base su cui si sviluppa il delitto d'onore; è però molto importante che, in una composizione di fantasia, il cantastorie abbia sentito il bisogno di additare uno dei più gravi problemi sociali di questa nostra Sicilia.
Parecchi elementi di questa « storia » (tradimento coniugale, delitto d'onore, tenerezza per i bambini, suicidio finale del protagonista) ritornano, ma inclusi in una trama molto più commovente, nella più recente composizione di Busacca, ancora inedita, intitolata « La matri snaturata » (8).
(1) Come già avvertì A. BUTTITTA, le liriche di Busacca si richiamano spesso a testi tradizionali (quando addirittura non sono composizioni popolari di cui il nostro cantastorie si è attribuita la paternità); per il testo presente si confronti: G. PITRÉ', Canti popolari siciliani, Roma 1941, vol. 1; n. 339-340, p. 313; B. RUBINO - G. COCCHIARA. Usi e costumi, novelle e poesie del popolo siciliano, Palermo 1924, p.p. 19-20.
(2) Si veda però quello che dirò più avanti in « La matri snaturata ».
(3) R. LEYDI, Cantastorie, in « La piazza», Milano 1959, pp. 352 ss.
(4) A. BUTTITTA, Cantastorie in Sicilia, Palermo 1960, pp. 17-19, 58, 63.
(5) A. BUTTITTA, Le «storie» di Cicciu Busacca» in «Annali del Museo Pitré », XIV-XV (a. 1963 - 64-) pp. 119-219.
(6) Faccio queste osservazioni su quello che ho personalmente no­tato a Paternò: ma chiunque abbia anche solamente attraversato certi quartieri popolari dei paesi siciliani, avrà potuto constatare l'esistenza di queste « comunità di cortile ».
(7) Secondo gli studi più recenti, fu poi la tradizione popolare a trasformare la baronessa in una innocente fanciulla. Si vedano: S. SALOMONE-MARINO, La Baronessa di Carini, ecc. Palermo 1870, II ed. 1873, III 1914; G. PITRÉ', Canti popolari siciliani, Roma 1941, V. II., p. 120; L. GALANTE, Un poemetto siciliano ecc. Catania 1909; A. PAGLIA­RO, Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958; A. RIGOLI, Le varianti della « Barunissa di Carini » Palermo 1963, La questione è ottimamente sintetizzata in una pubblicazione del prof. LO NIGRO, {La poesia siciliana nella storia degli studi. Parte I, Appunti del corso tenuto dal prof. Sebastiano Lo Nigro nell'anno accademico 1966-67, pp. 26-38)
(8) Il tema della madre snaturata, che abbandona o uccide i propri figli, può apparire ostico a chi è abituato a tanta poesia (ma anche a tanta retorica) circa l'amore materno; esso potrebbe sembrare addi­rittura contrario alle più elementari leggi della natura.
Comunque, ci troviamo di fronte ad un tema tradizionale; il Pitré raccolse nella tradizione orale una « storia » (« La comare »), in cui è narrata la vicenda di una madre che getta addirittura nel forno ardente la figlia che ha scoperto la sua tresca; ovviamente, i due amanti saranno scoperti e giustiziati. (Pitré, Canti popolari siciliani, Roma 1941, vol. II, p. 126 n. 918). Un canto di argomento simile fu accolto anche dal Vigo nella « Raccolta amplissima » (La matricida, ossia La storia di Piazza, p. 668).
Un raffronto fra questa composizione di Busacca e un testo molto più moderno mi si è, però, affacciato insistentemente alla mente, cioè quella canzonetta, molto conosciuta, intitolata « Balocchi e profumi ». La madre che per leggerezza e amore dei piaceri abbandona la figlia, l'accenno ai balocchi si trovano senz'altro sia nella canzonetta che nella « storia »; che Busacca abbia voluto « drammatizzare » un tema ormai popolare?