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Categoria: PROFAZIO OTELLO
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I FRATI MAZZARINU

Otello Profazio

 

I FRATI DI MAZZARINU
Hannu parlatu tantu di frati di Mazzarinu
e n'hannu dittu di tutti li culuri,
ma chi valivuli mi fannu ddi fratuzzi puvireddi
quannu furu minacciati cu pistoli e cu cuteddi,
maricchieddi, meschineddi, puvireddi
Si presentau lu capu malandrinu a li cunventu di Mazzarinu
Quannu la porta apriu lu Guardianu
trasiu ddu ceffu ca pistola in manu
e appena i frati furu radunati,
stativi accorti dissi ed ascoltati.
Aviti a ghiri nda li tali e tali,
cincu miliuni v'hati a fari dari
e stati accorti ca se mi traditi
la morti di li surci faciti.
Chistu ci cumandau a li fraticeddi
amninazzannuli cu li cuteddi
e frati ci trimau lu pidduzzuni
cadiru supplicannu in ginucchiuni
Facemu chiddu ca diciti vui,
ma salvati la vita mari a nui
Chi valivuli ca mi fannu li fratuzzi puvireddi,
quannu furu minacciati
minacciati cu pistoli e cu cuteddi
maricchieddi, meschineddi, puvireddi.
E li frati furu assolti, la paura di la morti
figghi mei non è peccatu, figghi mei non è peccatu,
s'hannu beni cumpurtatu
E li frati furu assolti di li giudici e la corti
la giustizia in chista terra a li forti nun fa guerra
e a li debuli sutterra.
Sia pi drittu ca pi stortu, fissa e poveri hannu tortu
ca li ricchi e la minditta sempri cadunu a la dritta
E perciò nun fari beni, si non quannu ti conveni
Su ci sunu cosi gravi, megghiu mani mi ti levi.
La morale amici beddi, è salvativi la peddi.




La storia dei mponaci di Mazzarino (da La Republica.it)
Corte d' Assise di Messina, 12 marzo 1962. Tra gli spintoni dei paparazzi sfilano davanti ai giudici quattro frati cappuccini: Vittorio, Venanzio, Agrippino e Carmelo. Al secolo, rispettivamente, Ugo Bonvissuto, 41 anni, Liborio Marotta, 46, Antonio Jaluna, 39, Luigi Galizia, 83. Sono «i monaci di Mazzarino», barbe incolte e aria stralunata. Si sono già fatti due anni di carcere e portano il peso di accuse gravissime: associazione per delinquere, concorso in omicidio ed estorsione continuata. Mazzarino, 5 novembre 1956. Il convento, a strapiombo su una vallata d' ulivi, separato da una fila di cipressi dall' antico cimitero, è silenzioso come ogni sera. C' è vento. E nebbia. I monaci se ne stanno chiusi nelle loro celle. Improvvisamente un urlo rimbomba nel corridoio. E dopo un istante due colpi: vengono dalla stanza di Agrippino che, atterrito, fissa come un ebete i pallettoni conficcati nel muro. I carabinieri aprono le indagini, i frati vengono interrogati e sette mesi dopo il caso è già archiviato. Ma non per sempre: tre anni più tardi verrà riaperto, dopo che sul paese si è abbattuta una raffica di incendi intimidatori, estorsioni, ricatti e omicidi. Allora tutto sembrerà chiaro. Chi accusa i frati è convinto che sotto il saio si nascondano dei briganti che hanno messo in scena un finto attentato (dalle colonne de «L' Ora» Mauro de Mauro li chiama «monaci-banditi, i don Abbondio della estorsione»). Chi li difende, invece, dirà che le canne mozze d' una doppietta sono entrate per davvero nella cella di Agrippino, per costringere lui e gli altri tre confratelli a coprire misfatti compiuti da altri. Certo è che per trenta mesi Mazzarino vive nel terrore: da quella sera maledetta d' autunno parte un' angosciante catena di delitti. Un rosario di estorsioni sgranato a forza di minacce di morte. Alcune somme vengono spillate a due Padri Provinciali degli stessi Cappuccini, altre al dottor Ernesto Colajanni, la cui farmacia subisce un principio d' incendio di natura intimidatoria. Il barone Alù e due agricoltori della zona - tali Pollara e Bonanno - si ritrovano un bel mattino senza bestiame. E lo stesso Bonanno, di Riesi, viene bombardato di lettere minatorie. Così pure altri proprietari terrieri di Mazzarino. è un incubo. Che finisce in tragedia. Perché al tramonto del 25 maggio 1958, la 600 su cui viaggia il cavaliere Angelo Cannada insieme alla moglie Eleonora Sapio e al figlio, viene bloccata in contrada Prato. Quattro uomini mascherati trascinano dietro un cespuglio il facoltoso possidente e lo fanno fuori in due minuti. Prima le intimidazioni, poi le estorsioni, ora anche l' assassinio. A Mazzarino nessuno fiata, dopo le cinque comincia il coprifuoco. Si procede «a carico d' ignoti» fino al 5 maggio dell' anno successivo, quando due fucilate raggiungono il vigile urbano Giovanni Stuppia e nel giro di una notte finiscono in caserma Giuseppe Salemi, 40 anni, Girolamo Azzolina, 27 anni, e Filippo Nicoletti, 16 anni. è il trio dei cosiddetti "laici", più tardi imputati assieme ai religiosi al processo di Messina. Dilettanti e ladri di polli, sempre in cerca di qualche soldo per pagarsi una notte d' amore a Catania. I tre vengono interrogati e i carabinieri risalgono al mandante: Carmelo Lo Bartolo, di anni 43, giardiniere del convento, rude e temuto, analfabeta dai baffetti sempre in ordine, che verrà arrestato a Genova, dove nel frattempo è fuggito, e che poi, condannato a 30 anni, si toglierà la vita impiccandosi in una cella del carcere di Caltanissetta. Da Lo Bartolo gli inquirenti arrivano nei meandri del convento. E il 16 febbraio 1960 i frati finiscono in manette. Vittime o complici? Il processo si apre a Caltanissetta. I difensori dei monaci partono subito all' attacco. Sperano che il giudice assolva i loro assistiti giustificandone l' operato con lo «stato di necessità», o che almeno ne distingua le responsabilità dai laici, accollando a questi l' intera responsabilità dei delitti più gravi, primo fra tutti l' omicidio, sia pure preterintenzionale, del cavaliere Cannada. Ma quando ormai è certo che i monaci dovranno essere processati davanti a una Corte d' Assise, il regista della difesa, il cattolicissimo Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione, ottiene il trasferimento del processo per legittima suspicione: sui banchi dell' accusa sederebbero «avvocati leader politici dell' anticlericalismo e dei partiti di sinistra» (il socialista Nino Sorgi e il liberale Girolamo Bellavista, patroni dei Cannada) e su quelli della difesa «avvocati leader del movimento cattolico». Viene scelta Messina. A difesa dei frati scende in campo anche il grande Francesco Carnelutti, insieme a Francesco Siciliano. Interrogati, i religiosi raccontano di avere agito a fin di bene e di non avere mai intascato una lira delle somme riscosse, consegnate ogni volta al Lo Bartolo. In aula non mancano colpi di scena e di teatro, lacrime e applausi. Perché, si chiede l' accusa, i frati non hanno denunciato i fatti ai carabinieri? Perché non si sono confidati con i loro superiori? Perché non hanno chiesto trasferimento? Del resto sono stati solerti nel sollecitare il pagamento delle somme imposte, si mostravano preoccupati delle indagini e ogni volta si assicuravano che le vittime non annotassero i numeri delle banconote. Addirittura ironizzavano sulla irrisorietà delle somme che chiedevano ai ricattati di consegnare. Dunque la loro partecipazione psicologica ai delitti è stata «piena». E se si considera l' ascendente di cui godono i religiosi in genere e il grado di cultura rispetto ai complici, non c' è dubbio: sono loro «i capi dell' associazione a delinquere». Durissima la requisitoria del pm Di Giacomo. Secondo il battagliero collegio di difesa, invece, la mente sarebbe stata il Lo Bartolo, vero capo della banda che coi frati recitava la parte del protettore. I monaci sarebbero stati testimoni, non coimputati. Carnelutti dice a gran voce che i «santi religiosi» vanno assolti non per «stato di necessità» ma per aver adempiuto a una «missione». La sentenza di primo grado di Messina assolve i frati per avere agito in «stato di necessità». E i frati vengono scarcerati, benedicendo Dio e l' articolo 54 del codice penale. Ma si chiude un processo e se ne apre un altro: quello alla sentenza, depositata in 193 pagine. Scoppia il finimondo (rovente, tra le altre, la polemica fra Carnelutti e il presidente della Camera, il penalista Giovanni Leone). Dopo un anno il verdetto viene riformato dalla Corte d' Assise di Messina, che condanna i frati a 13 anni. Due anni dopo, la sentenza viene annullata per difetto di motivazione. E un nuovo processo d' appello si apre a Perugia. Ma la corte riduce la pena da 13 a 8 anni e riafferma la correità dei religiosi. Per i monaci non c' è niente da fare: a due passi da Assisi, san Francesco non fa miracoli.